In questo quarto articolo della serie Racconti Cronici la voce di Giada ci accompagna in un groviglio intricato di pensieri e teorie filosofiche che lei riesce a riordinare per raccontarci come tre elementi come dolore, percezione del proprio corpo e narrazione siano strettamente interconnessi fra loro.
Buona lettura!
"You don’t need to be fixed, my queens – it’s the world that needs the fixing" (Johanna Hedva)
Che privilegio poter scrivere di narrazione. Che bellezza poter parlare di storie. E, soprattutto, che dono per me poterlo fare dalla posizione di persona vulnerabile e dolente, strettamente intersecata con quelle di amante della letteratura, narratrice wannabe, e di studentessa che ha potuto approfondire accademicamente il dolore, la narrazione e quel tortuoso ed infinito cammino che è la costruzione della nostra identità.
Cercherò, in queste righe, di comporre delle frasi capaci di rivendicare fieramente tutte quelle posizioni soggettive poco fa menzionate. Non so se ci riuscirò, magari me lo potete far sapere voi, care lettrici e cari lettori, ma sicuro ci provo. Ma bando alle ciance, iniziamo!
“Nella nostra epoca, i corpi si sono convertiti in luoghi di esibizione . . . La rappresentazione e l’interpretazione dei nostri corpi si convertono in tentativi disperati e frequentemente compulsivi di riconoscerci corporalmente” (Orbach 2010, 110).
Con queste poche parole Susie Orbach, brillante psicanalista (anni addietro, analista di Lady Diana), spiega che nel contesto del mondo occidentale e postindustriale abbiamo perso il contatto con quella parte dell’io che ci permette di non essere soltanto astrazione: ci siamo dimenticate/i dei nostri corpi.
Come è possibile dimenticarsi del proprio corpo? La risposta che voglio provare a dare è triplice.
In primo luogo, nessun corpo è “pre-dato”: tutti i corpi si formano, sia in senso fisico che sensoriale. I corpi che risulterebbero dal crescere sole/i in una giungla o in una casa di campagna con la propria famiglia divergono immensamente.
La seconda questione ha a che vedere con il postmodernismo; una corrente filosofica e di pensiero che ha saputo influenzare moltissime discipline, e che si è diffusa nel mondo occidentale a seguito della crisi dei valori che avevano caratterizzato l’epoca moderna (filosofe/i, perdonata la mia spiegazione penosa). Il postmodernismo celebra la corporalità (l’avere un corpo, l’essere corpo) come puro simbolismo, difendendo la possibilità di creare i nostri “corpi fluidi” nella maniera che vogliamo, producendo così quella che è stata definita la realtà dei “corpi mancati”.
Corpi che sanno apparire ma che faticano ad essere, a sentire, a toccare (Orbach 2010).
Last but not least, normalmente non ci preoccupiamo per i nostri corpi mentre siamo sane/i, li diamo per scontati: se possiamo fare tutto ciò che desideriamo, non sprechiamo energie per connetterci con essi o per ascoltarli. Ci godiamo il “silenzio della salute” (Charon 2006, 88).
E quando non siamo sane/i?
Quella condizione di dolore corporale per antonomasia, la malattia, può essere pensata come contesto privilegiato per riconoscere il nostro corpo, che significa anche riconoscere il nostro io, consapevoli che la separazione cartesiana corpo/mente è stata oramai ampiamente superata: i nostri corpi sono parte integrante del nostro io, sono essi stessi il nostro io.
La malattia richiama la nostra attenzione e ci obbliga a ricordarci costantemente della nostra corporalità.
Quando alla mattina mi devo alzare dal letto devo pensare al mio corpo, ascoltarlo ed armonizzare con esso; devo muovere le gambe delicatamente e far scaldare le ginocchia prima di mettermi in posizione verticale. Se non lo facessi urlerei di dolore.
Non sto in nessun modo affermando che le patologie reumatiche siano un dono, perché questa retorica da mercato del “la malattia ti rende più forte” mi fa venire voglia di buttarmi per terra e di battere ripetutamente la testa sul cemento.
L’artrite fa schifo.
Pur essendo una condizione non desiderabile, mi permette una conoscenza del mio corpo e una capacità di empatia corporale verso il corpo delle/degli altre/i che le persone con corpi sani non hanno.
Una delle cose meravigliose di passeggiare con balde/i giovani che vivono nel magico mondo delle patologie reumatiche è proprio l’intensità dell’empatia corporale che si genera: ci guardiamo, ci aspettiamo, ci tocchiamo, ci teniamo a braccetto, non camminiamo troppo veloce, zoppichiamo liberamente, ci lamentiamo tanto.
Manco le mie amiche/ i miei amici di una vita si ricordano che in tanti momenti non riesco a correre, e doverlo ripetere in continuazione è un’esperienza abbastanza frustrante.
Verbalizzare il dolore fisico è sovente una missione colossale.
Il dolore non si piega alle rigide regole linguistiche, ma resiste ad esse.
Ci mancano espressioni, ci mancano parole, ci mancano sfumature per raccontarci il dolore.
Credo che questo succeda per due ragioni; da un lato perché tendiamo a vivere il dolore come una dimensione estremamente privata e sono rare le occasioni in cui facciamo con esso esercizio di narrazione; dall’altro perché siamo portate/i a pensare che il dolore che viviamo in prima persona e quello che vivono gli altri individui non appartengano allo stesso ordine di cose (Scarry 1985): il dolore vissuto in prima persona è certissimo per noi ed estremamente incerto per qualsiasi altra persona, e la situazione si ingarbuglia se pensiamo che questa prospettiva è quella di ogni essere sofferente.
Come trovare un punto di incontro? Come poter empatizzare con il dolore altrui? E come sentirci meno sole/i nella nostra corporalità dolente?
Attraverso la narrazione. Attraverso l’esercizio della verbalizzazione del dolore. Attraverso il training dell’ascolto attivo. Attraverso una rinnovata celebrazione della vulnerabilità. Condividendo storie personali per creare voci potenti. Attraverso nuovi modi di raccontare il dolore.
Un’opzione interessantissima è quella della “Medicina Narrativa”, “una medicina praticata con quelle abilità narrative di riconoscere, assorbire, interpretare ed essere (com)mosse/i dalle storie di malattia (Charon 2006, vii).
La medicina narrativa riconosce i deficit delle pratiche mediche in relazione all’area comunicativa e di ascolto della/del paziente e propone di incorporare competenze narrative e letterarie nel sistema di salute, apprendendo ad onorare le parole, le storie ed i silenzi delle persone malate, coscienti che il dolore non può essere espresso in forma chiara, ordinata e rapida (Charon 2006).
*Quanto vorrei non essere interrotta dopo dieci secondi durante gli appuntamenti medici.
Quanto vorrei non dover misurare il mio dolore in una scala da uno a dieci, consapevole che in quella scala non posso raccontare i picchi di intensità, il dolore pungente, o caldo, o rigido, o leggero ma costante.
Quanto vorrei che ci fosse una persona, formata per farlo, che sappia accompagnarmi in quel viaggio di scoperta e di narrazione del dolore all’interno di quei cubi sterili che sono gli ospedali.
La seconda transizione alla quale auspico è quella verso una dimensione collettiva del dolore.
Il mondo, così come è ora, ci rende ogni giorno più malate/i.
Dobbiamo iniziare a prenderci cura gli uni delle altre in un processo di celebrazione della fragilità* in quanto caratteristica intrinseca di ogni essere umano e fondamenta sulle quali il nostro io è costruito (Hedva 2016). Potremo così smetterla di sentirci tanto sole/i ed imperfette/i, e dare nuova forma al mondo, e a noi stesse/i: “come pianeti in un sistema solare, ruotiamo attorno e siamo scaldate/i da un sole comune, mentre incarniamo vite assolutamente differenti” (Charon 2006, xiii).
Sedimentando
Un antico pomeriggio
inquieto.
Un saggio, non vecchio non giovane
con voce pacata
fastidiosamente gutturale
scandì undici parole, il doppio delle sillabe.
Che il dolore è l’unico maestro
lo si impara invecchiando”.
Con il mio quarto di secolo
posso visceralmente odiarlo
a tratti temerlo
in attimi fugaci, ascoltarlo.
Dolente, ma viva.
Riferimenti completi delle autrici e delle opere citate:
Charon, Rita. 2006. Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness. New York: Oxford University Press.
Hedva, Johanna. 2016. “Sick Woman Theory”
Orbach, Susie. 2010. La tiranía del culto al cuerpo. Traducido por Vanesa Casanova. Madrid: Paidós Ibéricos.
Scarry, Elaine. 1985. The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World. New York: Oxford University Press.
Ringraziamo Giada per questo articolo che speriamo vi sia piaciuto!
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