Accettazione.
Una parola, tanti significati. Questo perché, secondo me l’accettazione è un percorso costellato di varie tappe che si susseguono una dopo l’altra, che prima o poi è necessario affrontare.
Ovviamente è anche un tema a cui ogni persona dà una connotazione, significato e valore personale e non esiste una via unica da intraprendere.
Io me lo immagino come un lungo viaggio.
Sento che piano piano devo percorrere una strada che mi porti ad accettare il fatto di avere una malattia cronica.
Voglio essere positiva e, secondo me, prima o poi si può accettare ed accogliere in tutte le sue parti.
Certo, con una buona dose di aiuto personale, perché sono dell’idea che le cose, se prima non siamo noi stessi a volerle, non si va da nessuna parte.
D’altro canto ci vuole anche una mano da parte delle persone che riteniamo possano sostenerci ed amarci al meglio.
Io credo che all’inizio, alla partenza, io sia stata da sola. Non perché materialmente lo sia ma perché mi sono sentita così: da sola, dopo aver ricevuto una diagnosi e una marea di pensieri che mi ha avvolta in un velo di stupore e incredulità.
In quel momento non contemplavo nemmeno la concezione di una minima ombra di accettazione. Mi ritrovavo con un foglio pieno di termini medici di cui non capivo nemmeno il significato, tante istruzioni da seguire che da lì a poco mi avrebbero aiutata (anche se ad essere sincera non ci credevo molto i primi tempi) e un mucchio di domande.
In realtà in quella piccola stanza d’ambulatorio di un ospedale non ero fisicamente da sola.
Mi aveva accompagnata papà. E quel velo che mi aveva avvolta per un po’ di tempo, di colpo se n’è andato per lasciare spazio ad una nuova consapevolezza: la malattia non era solo mia ma era diventata un po’ “nostra”.
Già, perché vedere lo sconforto, l’incredulità e il dolore nei suoi occhi ha segnato l’inizio del viaggio. In qualche modo dovevamo gestirla insieme e, secondo me, capire che questi eventi non coinvolgono solo noi ma anche le persone che ci stanno intorno è il primo spiraglio che ci consente di contemplare almeno per un attimo l’accettazione.
Ora provo a raccontarlo questo viaggio.
Tutto ha quindi inizio un giorno di gennaio. E’ un pochino un paradosso che un evento così brusco sia accaduto proprio durante la mia stagione preferita, perché io l’inverno lo adoro alla follia.
Ma una diagnosi non è riuscita a farmelo odiare, forse lo ha reso ancora più intenso per certi versi.
I primi tempi ero in preda ai dubbi più spaventosi e spesso mi domandavo cose come perché proprio a me, come questa cosa avesse un impatto sulla mia vita, andrò fuori corso o dovrò lasciare l’università , come faccio a non far preoccupare le persone intorno a me?, come sarà il mio futuro?.
Ma quando ho realizzato che era proprio l’incertezza a parlare al posto mio e che ovviamente non avrei potuto avere né la sicurezza né il controllo su ciò che poteva avvenire, che questo primissimo scalino è stato superato; credo di esserci riuscita innanzitutto rivolgendomi ad una psicoterapeuta che, mi ha aiutata a costruire risorse e non muri per affrontare la malattia, ed in secondo luogo ma non meno importante (anzi forse ancora di più), cercando un appiglio nelle persone a cui voglio bene.
La mia famiglia purtroppo (e lo dico per loro perché mi dispiace tantissimo che soffra per me) non l’ha presa bene: i miei genitori in particolare erano veramente abbattuti e ho capito che, se per me in quel momento era difficile, per loro invece era molto peggio.
Perché credo che per un genitore la cosa peggiore sia vedere soffrire un figlio.
Così inizialmente avevo imparato a non farmi vedere abbattuta o mentre stavo male.
Ma per quanto possa esser stato utile all’inizio, questo mio comportamento iniziava a pesare e non mi faceva andare avanti nel viaggio.
Perché non concedermi lo spazio di poter star male, mi faceva in qualche modo negare la malattia.
E col senno di poi ho anche imparato quando, come e con chi condividere determinati momenti di fragilità.
Il secondo scalino l’ho salito buttandomi a capofitto in attività che mi facevano sentire bene.
L’università e il volontariato. Sul secondo dico solo che ciò che ti dà e nettamente superiore a ciò che tu dai; fa star veramente molto bene ed è una cosa che consiglio a tutti, qualsiasi campo sia di interesse personale, va benissimo!
Con la prima, invece, ovviamente intendo non solo lo studio che è stata un’enorme spinta motivazionale e valvola di sfogo perché in alcuni momenti mi distraeva e permetteva di non pensare e cadere nel baratro.
Anche tutti i miei amici sono stati molto importanti; inizialmente erano davvero tanto spaventati, forse anche più di me.
Non li biasimo perché come dicevo, la malattia era “un po’ nostra”.
Era davvero da molto che mi vedevano in difficoltà e forse tante volte non sapevano come aiutarmi anche se la sola loro presenza per me una dose di affetto talmente potente da permettermi di non vacillare. E così, tra qualche caffè di troppo, paure, sogni, non detti e libri tutti evidenziati a causa della sessione invernale, abbiamo avuto modo di confrontarci.
È stato quasi strano come il fatto di rassicurare gli altri in qualche modo rassicurava anche un po’ me stessa.
Gli ho spiegato ciò che avevo capito di tutto ciò che era la malattia e il trattamento farmacologico, ovviamente a modo mio e sicuramente non correttissimo dal punto di vista medico, ma pazienza…non mi sto laureando in Medicina!
Ricordo solo che, dopo aver fatto tutto lo spiegone (che avevo palesemente imparato a memoria e poi storpiato solo per fare la scema, che è una cosa che mi riesce molto bene, chissà come mai), me ne sono uscita con questa perla “Oh, prendo anche questa (mostrando la pastiglia) che è talmente grossa che devo ancora capire se è davvero una compressa o una supposta! Nel dubbio io la ingoio”.
Diciamo che iniziare a riderci sopra ha aiutato un po’ tutti. Me in primis.
Era un altro strumento che mettevo nel mio bagaglio, d’ausilio al viaggio. Dopo aver iniziato ad utilizzare l’ironia e l’autoironia (soprattutto), la mia percezione era che le cose stessero diventando leggermente meno pesanti e iniziava ad insidiarsi l’idea di poterci convivere con la mia compagna di viaggio.
I feedback dei miei amici e di mia sorella sono stati molto importanti per un’altra fase di questo percorso, tanto che ho smesso di contare gli scalini, ma per me il viaggio verso l’accettazione è fatto di fasi che prevedono difficoltà e punti di forza, fatte di piccoli compromessi e piccole accettazioni.
La fase che grazie a loro è stata superata è quella dell’identificazione con la malattia.
Inizialmente mi nascondevo e a volte mi vergognavo di averla, la negavo perché indubbiamente aver a che fare con un corpo e dei sintomi che spesso te la ricordano, ti fa vedere te stessa come parte di quella malattia. Ma credo sia vero il contrario.
La malattia è parte di te. Ma non è la tua persona. Tu ci convivi ma non è te.
Il fatto che non abbiamo mai trattata un singolo istante come una persona malata ma “semplicemente” come Irene che in quel momento stava passando un momentaccio, mi ha aiutata a non identificarmi con lei. Ed è stato molto utile per il passo successivo, ovvero quello di riprendermi le redini della mia vita.
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Ad un certo punto, avendo capito che lei non era me, ma nemmeno il nemico assoluto visto che avremmo dovuto condividere tutta la vita, mi son detta “Benissimo, non voglio sapere perché sei arrivata e non mi interessa nemmeno! Potrai avere a volte qualche rivincita ma, cara fibro, non ti permetto di interagire completamente con la mia vita”.
Dopo aver cercato di resisterle e aver capito che il dolore, qualsiasi esso sia, non va combattuto ma va fatto entrare per potergli concedere un po’ di spazio, studiato e imparare a gestirlo sempre al meglio, credevo di aver accettato di avere una malattia in tutto e per tutto. Ma penso per molto tempo di essermi illusa.
Certo, me la stavo vivendo e me la vivo meglio, però il fatto di pensare di dover sempre fronteggiare qualcosa per non permettergli di averla vinta, mi ha sicuramente aiutata nel percorso di accettazione e forse ha concluso il primo capitolo di questo viaggio.
Ma dall’altra parte ha posto le basi per un secondo capitolo, molto delicato, al quale tutt’ora sto lavorando. Quello dei limiti e delle sfide. Già perché per non permettere alla malattia di interagire con la mia vita, ho iniziato a lanciarmi sfide. Di per sé positive, sia chiaro.
Che fosse fare qualche esperienza molto stancante ma nuova, un risultato migliore nella carriera universitaria, svolgere tantissime attività, fare una corsa, mettermi alla prova in cose in cui di solito sono una frana, …Il fatto di averne superate molte mi ha dato sicurezza e consapevolezza sul fatto di non avere nulla di male che non andasse e che, nella vita avrei potuto fare tutto ciò che volevo. Inizialmente erano sensazioni positive e funzionali.
Ma quando poi mi sono fermata ed imbattuta in qualche ostacolo, ho anche appreso un’importante lezione. Facevo e faccio tutto questo…
Ma perchè? A quale prezzo? Cosa voglio dimostrare e soprattutto a chi?
Inizialmente non me ne rendevo conto.
Pensavo che continuare a strafare fosse un ottimo modo per non darla vinta non so nemmeno più a cosa. Il “prezzo” da pagare era costituito sicuramente da tante soddisfazioni ma, sul lungo periodo anche da fatica, sonno perso e qualche delusione.
Pensavo che di dover dimostrare qualcosa.
Alle altre persone per far vedere che avevo tutte le carte in regola e che in qualche modo l’aspetto della cronicità non mi toccava in alcun modo. Ma soprattutto a me stessa.
In qualche modo era come se mi stessi dicendo che, alla fine, i limiti che una malattia può imporre, in qualche modo possono essere superati; non accorgendomi che invece essi costituiscono si un ostacolo, ma, secondo me, anche un punto di partenza per il percorso di accettazione. È vero che ti mettono di fronte alla realtà, ma ti permettono anche di avere la consapevolezza. Ed essa per me è uno strumento fondamentale per fare progressi.
Ma ancora più importante è come me ne sono accorta. Come al solito avevo due belle fette di salame sugli occhi (peccato non averlo saputo, almeno potevo farmi uno spuntino come si deve, ma vabbè) e, avendo esagerato per l’ennesima volta, mi viene detta una cosa.
Un mio carissimo amico se ne esce con questa frase. “Ire, ricordati che sei un essere umano anche tu. Non siamo invincibili perché non siamo supereroi.”. Subito non ne ho capito il significato.
Forse perché oltre agli occhi, avevo anche le orecchie piene di salame!
O forse perché quando le cose importanti ci vengono dette dalle persone a cui teniamo tanto, assumono una connotazione diversa e arricchente.
Ma visto che sono molto testona è stato fondamentale che il messaggio mi sia stato ricordato anche da un’altra mia carissima amica:
sono proprio i limiti a renderci le persone che siamo e se gli altri accettano i nostri, perché non possiamo farlo noi stessi?
Sono quindi arrivata, ad ora, alla conclusione che è umano avere limiti.
Che siano dati da una malattia, una condizione, dagli altri o dalla nostra mente, credo che la differenza sia poca. È vero che alcuni si possono superare mentre altri forse mai.
Ma mi ero dimenticata anche il fatto che essi ci rendono unici ed è proprio questo che ci rende speciali. Mi ha colpita una cosa: la semplicità con cui a volte il punto di vista di chi amiamo ci aiuta a vedere in maniera più lucida, ci sopporta, supporta e ci accompagna durante il percorso.
Questo secondo capitolo del mio viaggio si sta prospettando essere un pochino difficoltoso, come è normale che sia, ma molto interessante e non vedo l’ora di scrivere anche i prossimi!
Un enorme grazie ad Irene per aver condiviso con noi la sua esperienza e parte del suo viaggio!
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